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... disegnavo segretamente, sempre ed anche quando non disegnavo, guardavo il mondo come se stessi disegnando... (continua in Biografia)

Il tema di Lara

di Beatrice Buscaroli

“Voglio staccarmi quanto più è possibile da qualsiasi cosa che dia l’illusione di un oggetto, e poiché le ombre sono il trompe-l’oeil del sole, sono propenso ad eliminarle”.

E’ quanto Paul Gauguin scrive ad Emile Bernard sul finire del 1888 inaugurando una stagione che porterà a compimento la crisi del concetto di rappresentazione.
Che cosa è un dipinto? Per Gauguin ormai si tratta di questo: comprendere che, a dispetto del “tema”, del “soggetto”, che può essere tratto dalla vita o dalla natura, il gesto del dipingere si risolve nella creazione di armonie di linee e di colori. Per cui, dell’ombra non bisogna essere schiavi, della profondità non bisogna essere schiavi, dei toni naturali del colore non bisogna essere schiavi.
Detto altrimenti: il rapporto con la realtà non è più descrittivo, realistico, mimetico, ma si fonda piuttosto sull’autonomia del quadro.
Il pittore osserva i “volti” della natura, ma li trascrive liberamente come se potesse ricorrere ad essi come un puro repertorio di segni.
Un repertorio quanto mai esteso e insondato è il volto dell’umano, nelle sue innumerevoli apparizioni; repertorio che il “tema di Lara” sembra voler affrontare con forte veemenza espressiva.
Eppure, come aveva sottolineato Claude Levy-Strauss, «la verità si riconosce dalla cura che essa prende nel nascondersi», ed il volto dell’umano – in questo caso, nel caso di Lara Leonardi si tratta del volto declinato al femminile – costituisce uno dei casi forse più emblematici di “nascondimento” che hanno affascinato le arti visive.
La vicenda culturale della maschera, del mascheramento, della dissimulazione, può apparire – ad un’osservazione superficiale – un gigantesco guazzabuglio.
Disvelare è pericoloso, come lo è scoprire la verità, che, per statuto etimologico, è “nuda”.
Disvelarsi è inopportuno. Alle celebrazioni dionisiache delle Menadi possono partecipare solo le donne. O meglio, gli uomini possono essere della partita – a meno che non si tratti di Orfeo, che disperatamente ricerca Euridice – solo se travestiti da donna. Se l’inganno decade, si rischia la vita.
Insomma, fin dagli albori della nostra civiltà, mitica e letteraria, sembra valere l’adagio “sua cuique persona”, “a ciascuno la sua maschera”.
Forse quello stratagemma, la maschera, è presente nel corpo di ogni civiltà umana.
Pochi anni fa, il Museo Etnologico di Vienna ha allestito una rassegna di rara bellezza – Wir sind Maske, “noi siamo maschera” –. Un excursus che si sviluppa attraverso le differenti civiltà umane, dall’Egitto al Tirolo, dall’Oceania alla Mesoamerica, dall’Africa all’Asia, dai vasi greci a Daniel Spoerri, passando per Ghirlandaio, Bernini, Rubens, Poussin, Guardi, Tiepolo, Ensor, Nolde, Picasso, fino al post-modernismo di Orlan e di Cindy Sherman.
Una rassegna disposta per percorsi tematici così chiari e rigorosi che era possibile seguirne la narrazione senza bisogno di giungere preparati e senza neppure leggere le didascalie: le maschere si smascheravano da sole.
Eppure quello del museo viennese è solo uno dei tanti modi attraverso i quali affrontare un tema dalla valenza simbolica tanto complessa come quello della maschera.
Non è un caso che l’Umanesimo, recuperando il teatro antico, proceda ad una riconsiderazione della maschera che, però, dal Cinquecento in avanti, assurgerà a simbolo della frode e dell’inganno: Cesare Ripa nella sua Iconologia ne enumera ben 20 varianti.
Con significati sinistri le maschere compaiono sulle tombe medicee di Michelangelo e nei quadri dei Manieristi; e in età barocca diventano uno dei simboli della dissimulazione e della stessa pittura, fino alle soglie del Modernismo. Poi arriva Freud e divide l’Io, il SuperIo e Es. La maschera perde il connotato negativo e torna al centro del dibattito intellettuale come simbolo della ricerca di una nuova identità.
Maschera e identità, maschera e alterità, maschera e sforzo apotropaico per sconfiggere l’oblio della morte, ma, soprattutto, maschera e finzione, maschera e dissimulazione.
Eppure, se volessimo ricercare un terminus a quo, credo che la costruzione del mito della maschera non possa prescindere dalla figura tragica di Edipo, del solutore dell’enigma della Sfinge, di colei che “scortica” quanti non sanno riconoscere l’ambiguità e la contingenza dell’esistenza umana.
Ed è proprio la Sfinge, per metà donna e per metà leone alato, a diventare “maschera”, figura di una natura che precipita nel baratro dell’annientamento. Ma, di più, essa è emblema della rappresentazione, all’interno della quale non c’è solo trasparenza, solo Apollo, ma, dall’interno stesso della trasparenza emerge l’opacità di Dioniso.
Un terminus ad quem potrebbe invece essere individuato proprio nelle pratiche della dissimulazione che accompagnano la nascita della modernità, tra Rinascimento e Barocco, tra “maniera” e cultura libertina.
Un percorso sintomatico, che potrebbe condurci dagli Eroici furori di Giordano Bruno alle Mémoires di Giacomo Casanova, dal mascheramento del rinnovamento culturale cui la filosofia può dar luogo, alla nostalgia che accompagna un grande intellettuale anti-accademico del Settecento, di volta in volta illuminista ed anti-illuminista, libertino e bigotto.
Ma, dopo tutto, la maschera più “opportuna” sembra comunque essere quella che indossiamo quotidianamente, la nostra facies, il nostro volto, la nostra fisionomia. Le varie forme attraverso le quali aggiorniamo quell’inganno che chiamiamo “ritratto” costituiscono la prova indiziaria probabilmente più clamorosa dei processi di dissimulazione che mettiamo in atto.
In fondo la maschera realizza un rito di passaggio: «Morire significa essere una maschera, perché chi non ha la vita di un uomo è soltanto la maschera di un uomo», afferma Enrico IV nell’omonima tragedia di William Shakesperare. Se cela, la maschera fa morire l’essere e lascia apparire qualche cosa che essere non è. Essere o non essere: il problema è irrimediabilmente quello. La volontà, la potenza che anima lo spirito dionisiaco che sembra sottrarsi alla linea, alla compostezza della forma, alla sua immutabilità, o la rappresentazione, il profilo, la maschera, ciò che permane in un mondo destinato a spegnersi.
Ecco allora la “serie”, l’investigazione sulla “persona” proposta da Lara Leonardi, un tentativo di rivisitare l’imaginerie del volto soprattutto femminile attraverso una procedura che simula tecniche compositive e soluzioni formali che rinviano ad Henri Matisse, a Paul Klee e, soprattutto, ad Amedeo Modigliani. Non si tratta di d’après, eppure il metodo attraverso il quale la composizione prende corpo sembra rinviare a quel processo che all’inizio del secolo scorso sembra ormai compiuto: sotto il tono ieratico del disegno e del colore ci si allontana dal romanticismo dell’emozione per lasciar emergere una costruzione intenzionale, sistematica, che si manifesta nella semplificazione delle linee, dei tratti di contorno, entro i quali si dispongono toni cromatici pressoché piatti, come se si trattasse di una pittura per compartimenti simile al cloisonné.
Eppure “raffreddare” l’emozione non significa affatto rinunciare all’espressione, alla potenza ed al dinamismo dell’espressione. Come sottolineava Matisse “la tendenza dominante del colore dev’essere quella di servire il meglio possibile l’espressione”. Ed è proprio l’espressione l’universo che “ossessiona” - o "appassiona" Lara Leonardi.
Il cui mondo è un interrogativo sospeso. Tra lei e la pittura, tra lei e la sua decisione di darsi completamente alla pittura c’è lo schermo forte di un archetipo, della storia, c’è l’esempio vero degli artisti che l’hanno preceduta, c’è l’onore che lei tributa a tutto questo. I suoi segni sono forti, decisi, propri di chi non ha più tempo per pensare a che cosa fare, ma fa; propri di chi decide di sciogliere una sua inclinazione - l’amore per Amedeo Modigliani, per esempio - esibendola con un coraggio senza limiti.

Lo schermo è quel che la pittura, la massima pittura della nostra storia, hanno lasciato in eredità: Lara si accosta a tutto questo provandosi, con segreta umiltà ma insieme con integra risolutezza. I segni sono forti, si sovrappongono con decisione, non lasciano entrare un refolo d’aria: sono concentratissimi e rigidi. I suoi volti prorompono dalle tele con un senso maturo di soluzione e di risoluzione. Le forme mutano, mutano i progetti, mutano le motivazioni, ma la struttura lontana che dà a Lara Leonardi gli schemi degli sguardi di Modigliani non le impedisce di inventare, di innovare, di aggiungere il suo tempo a quel tempo: un tempo, fra l’altro che, chissà perché, fu poco propizio al suo autore. E quindi tornano, forti e compatti, teste ovali e bocche serrate, lunghe strisce di biacca, stesure ampie: certezze. Le sagome recano anche il ricordo di caricature, bambole ritagliate, immagini di vecchie riviste: hanno una patina leggera di antico che sembra, ad ogni sguardo, rivivere, e ridarsi, in un mondo che della pittura non sembra più cosa farsene, ma la fa, continuamente, perché sembra essere un destino, un compito, per tutti. Per chi osa mettere quei colori e dar loro il senso compiuto di un volto e per chi si chiede chi sia, e perché ci sia.